Regime di utilizzabilità delle dichiarazioni del fallito nel processo penale

Accade spesso che l’imprenditore, o il rappresentante legale di una società, dichiarati falliti siano invitati dal curatore a rendere dichiarazioni, come previsto dalla legge fallimentare. I problemi che si pongono sono particolarmente gravi poiché è possibile che le domande che vengono poste dal curatore e – soprattutto – le risposte che vengono date, abbiano un contenuto incriminante.

 

Si può essere obbligati a rispondere al curatore? Con quali conseguenze?

L’utilizzabilità delle dichiarazioni rese al curatore nel processo penale comporta una lesione del diritto di difesa?

Il codice di procedura penale disciplina un regime di particolare garanzia per le dichiarazioni auto-indizianti. In particolare, se una persona rende dichiarazioni da cui emergono indizi di reità a suo carico davanti alla autorità o alla polizia giudiziaria, queste non sono utilizzabili nei suoi confronti e l’esame deve essere interrotto (art. 63 c.p.p.). Inoltre, le dichiarazioni rese dall’indagato non possono essere oggetto di testimonianza (art. 62 c.p.p.): così, ad esempio, gli ufficiali di polizia giudiziaria non potranno riferire al giudice su quanto dichiarato dall’indagato nella fase delle indagini.

Il tema non è certo una novità e, già nel 1995, la Corte Costituzionale (sent. 126/1995) aveva stabilito che le dichiarazioni rese al curatore non possono considerarsi rese nel procedimento penale, poiché la procedura fallimentare non può dirsi preordinata all’accertamento di reati.

Preme osservare tuttavia che accade molto spesso che il processo penale per bancarotta nasca proprio dalla relazione redatta dal curatore. Ciò nonostante, la giurisprudenza ha pacificamente escluso che questo comporti una violazione dei diritti fondamentali di difesa garantiti dalla Carta Europea dei diritti dell’uomo e dalla Costituzione, non avendo il curatore poteri di polizia giudiziaria e pur essendo un ausiliare di giustizia, pubblico ufficiale (Cass. Pen. sez. V, n. 38431/2019; Cass. Pen. sez. V, n. 858/2020).

E dunque, semplificando, la relazione del curatore, comprese le dichiarazioni del fallito, possono essere lette ed utilizzate dal giudice penale per motivare una sentenza di condanna; inoltre il curatore può riferire il contenuto di queste dichiarazioni davanti al giudice.

 

Ma allora è impossibile difendersi, o c’è qualche modo per non contribuire alle indagini nei propri confronti?

La stessa giurisprudenza citata sottolinea che il curatore non ha “poteri obbligatori” preordinati all’accertamento di reati e la sua attività non è assimilabile a quella dell’autorità giudiziaria. D’altra parte il fallito non è certo un testimone e le sue dichiarazioni non possono definirsi come “destinate a provare la verità”.

Inoltre vi sono principi generali di difesa secondo cui nessuno può essere tenuto – in nessuna sede – a danneggiarsi. Ed allora ben si può capire come le risposte date al curatore non devono essere auto-indizianti e l’obbligo di dire la verità penalmente sanzionato riguarda i soli elementi patrimoniali attivi, come espressamente previsto dall’art. 220 L.F.

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