Il caso e le motivazioni del Giudice di merito.
Il tema in commento concerne la configurabilità del reato di appropriazione indebita nei confronti del trustee il quale, dando una destinazione diversa da quella prevista nell’atto costitutivo ai beni conferiti in trust, ne abbia fatto un uso personale. La sentenza che ha trattato specificamente il caso ed è dunque la più commentata in questa materia è la n. 50672 del 3.12.2014 emessa dalla II Sezione della Suprema Corte in fase cautelare.
Meno nota è la sentenza [1] di merito relativa allo stesso procedimento che, nonostante sia piuttosto risalente nel tempo e, pertanto, non tenga conto delle recenti modifiche relative alla procedibilità del reato di appropriazione indebita, contiene alcuni punti che meritano un breve commento. Pare opportuno chiarire fin da subito che il procedimento si è concluso con sentenza di proscioglimento emessa dalla Corte d’Appello di Venezia.
Il caso ha avuto ad oggetto – per quanto qui di interesse – due capi di imputazione.
L’imputato è stato chiamato a rispondere di appropriazione indebita tentata e consumata per aver compiuto alcune operazioni, fra le quali quella di avere, “abusando della sua qualità di trustee e in violazione di vincoli derivanti dall’atto costitutivo del trust, tentato di appropriarsi della consistente somma di euro 1.700.000 mediante la costituzione di una società anonima svizzera in favore della quale chiedeva successivamente il riscatto (…)” di una polizza del controvalore della stessa somma.
Veniva poi contestato “l’impossessamento di somme di denaro e di beni appartenenti al trust che, anziché confluire nel trust, sarebbero stati impiegati per fini personali o, comunque, utilizzati in violazione del vincolo di scopo imposto nell’atto costitutivo del trust (…)”.
Fra queste somme rientravano alcuni prelevamenti che il trustee aveva giustificato come anticipo sui pagamenti dovuti per la propria attività. Il Tribunale di Vicenza ha ritenuto integrati i reati contestati.
In relazione ai prelevamenti del trustee si è affermato che “non opera il principio della compensazione con credito preesistente, allorché si tratti di crediti non certi, né liquidi ed esigibili (Cass. Sez. 2 Sentenza 293 del 4.12.2013)”: il Tribunale considerava determinante il fatto che le condotte contestate fossero finalizzate ad ottenere quello che non (era) ancora dovuto, poiché la determinazione del quantum dei compensi sarebbe dovuta avvenire posticipatamente ed avrebbe dovuto essere determinata “in misura percentuale sul fondo in trust che, essendo costituito da fondi e, successivamente, anche da un immobile, aveva consistenza variabile”.
Di talché sarebbe stato integrato il reato essendo stati conseguiti i pagamenti per l’operato del trustee prima ancora che la pretesa creditoria vantata dall’agente fosse realizzabile, per la sua incertezza, illiquidità o inesigibilità (in motivazione viene richiamata Cass. sez. 5 n. 21245 del 15/02/ 2017).
Il Tribunale riteneva integrata la medesima fattispecie anche in relazione alla sottoscrizione delle azioni di una società svizzera poiché “l’indebito utilizzo per fini personali di tale importo, che costituisce il presupposto per la configurabilità di una condotta di impossessamento, è legato alla valutazione della natura dell’operazione di costituzione della società anonima svizzera, che, se ritenuta distrattiva, implica l’illiceità anche della destinazione di tale somma”.
E dunque: “L’operazione di costituzione di una nuova società in cui far confluire il patrimonio in trust si traduceva nella creazione di una sovrastruttura che avrebbe determinato l’estinzione del Trust e che avrebbe consentito a chi agiva per essa, in primis (l’imputato) quale persona fisica e non come trustee, di disporre liberamente dei beni senza vincoli di scopo (…), al di fuori da ogni forma di controllo e senza le garanzie connesse al ruolo di trustee, così frustrando completamente la finalità del Trust e distraendone in concreto il patrimonio”.
In altre parole, si riteneva integrato anche il tentativo di appropriazione indebita del corrispettivo della polizza poiché finalizzato alla costituzione di una società che avrebbe consentito di realizzare l’illecito finale, quello della distrazione finale del controvalore di una polizza.
Insomma, gli atti diretti in modo non equivoco all’appropriazione indebita dell’intero patrimonio del trust avrebbero costituito essi stessi una condotta appropriativa avendo implicato dei costi.
Ma il presupposto imprescindibile per giungere alla conclusione che le predette condotte costituissero reato risiedeva, senza dubbio, nella natura giuridica del trust e nel rapporto giuridico intercorrente fra il trustee ed il patrimonio oggetto di segregazione: senza la c.d. altruità dei beni, non vi sarebbe potuta essere la interversio possessionis.
Sul punto il Tribunale non riteneva condivisibili le osservazioni della difesa secondo cui “il trustee è proprietario dei beni di cui assume l’obbligo gestorio e (…) la mancanza di beneficiari con pretese azionabili determina l’assenza di un rapporto obbligatorio che legittimi, da parte di qualcuno, la pretesa di ricevere i beni del fondo in trust. Mancherebbe, secondo questa prospettiva, sia la vittima del reato sia il danno”.
Ed allora, si ribadiva che “l‘inquadramento della proprietà del trustee sotto il profilo civilistico non è (…) dirimente perché il concetto penalistico di “altruità” nel reato di appropriazione indebita è considerato differentemente rispetto al corrispondente concetto del diritto civile, poiché il fondamento del reato di cui all’art. 646 c.p. va individuato nella volontà del legislatore di sanzionare penalmente il fatto di chi, avendo l’autonoma disponibilità della “res”, dia alla stessa una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che ne giustificano il possesso”.
Il Tribunale riteneva altresì assimilabile l’ipotesi in esame con i casi in cui il soggetto agente si appropri di denaro, quando “la somma entra ab extrinseco a far parte del patrimonio del possessore e con questo non si confonde proprio perché connotata da una vincolo specifico di destinazione” (Cass. Sez. Un. 1327 del 27/10/ 2004)”.
Principi che hanno portato ad affermare la sussistenza del reato in tutti i casi di utilizzo della somma di denaro in violazione dello scopo e dei limiti di un incarico conferito: “Ciò implica, in mancanza di una espressa facoltà di utilizzazione di tale somma, un implicito divieto di utilizzazione, senza acquisizione della proprietà del denaro stesso da parte dell’agente, che, pertanto, non può appropriarsi del denaro ricevuto utilizzandolo per propri fini e, quindi, per scopi diversi ed estranei agli interessi di chi gli ha conferito l’incarico, così violando le disposizioni al riguardo impartitegli, pena l’applicazione nei suoi confronti delle sanzioni previste dall’art. 646 c.p.” (Cass. Sez. 2, n. 23347 del 03/05/ 2016).
Sarebbe dunque “la stessa formulazione normativa, in altre parole, che impone all’interprete di considerare il denaro, al quale l’agente ha dato una destinazione diversa da quella dovuta, come se fosse una qualsiasi altra cosa mobile infungibile. Se denaro o cosa facevano parte del patrimonio dell’inadempiente quando ha assunto l’obbligo di impiegarli o destinarli a favore di un terzo, egli sarà senz’altro responsabile con l’intero suo patrimonio per l’inadempimento, ma non potrà essere sottoposto ad azione di rivendicazione né potrà imputarglisi alcuna interversione del possesso o condotta appropriativa. Se l’inadempiente ha invece ricevuto il denaro o la cosa per impiegarli o destinarli nell’interesse del terzo, la sua condotta di apprensione (appropriazione) e sottrazione (espropriazione) del bene alla destinazione in vista della quale ne aveva acquisito la disponibilità, costituirà, che abbia o non abbia ad oggetto un bene infungibile suscettibile di rivendicazione, appropriazione indebita rilevante ai sensi dell’art. 646 c.p. (….). Più in generale, il principio è che può essere ritenuto responsabile di appropriazione indebita colui che, avendo ricevuto una somma di denaro o altro bene fungibile per eseguire o in esecuzione di un impiego vincolato, se l’appropri dandogli destinazione diversa e incompatibile con quella dovuta (…)” (Cass. Sez. 2, n. 15815 del 08/03/2017).
Non vi sarebbe poi “confusione tra il patrimonio proprio del trustee e patrimonio gestito in trust su cui il trustee non può esercitare i diritti e le facoltà riconosciute dal codice civile in favore del proprietario, trattandosi di proprietà finalizzata e funzionale, che si esercita su di un patrimonio separato e autonomo rispetto a quello facente capo al trustee; un patrimonio vincolato al programma fiduciario che il trustee ha l’obbligo di perseguire”.
In conclusione, sarebbe “sufficiente ribadire che, proprio in virtù della segregazione del patrimonio del trust rispetto a quello proprio del trustee e del vincolo di destinazione imposto nell’esercizio dei poteri di gestione trasferiti al trustee, non risulta giuridicamente configurabile in capo al trustee un potere di disporre dei beni del trust ad libitum o per fini personali o per fini diversi da quelli per cui quei poteri sono conferiti alla cui realizzazione è indirizzata l’attività di gestione dei beni.
L’esistenza di questo vincolo esterno integra il carattere di altruità che determina, in caso di esercizio del potere in violazione del vincolo di destinazione e di scopo, la configurabilità del reato di appropriazione indebita”.
I profili critici della soluzione adottata dal tribunale.
Se pure il percorso argomentativo seguito nelle motivazioni in commento appare ben strutturato, permangono, ad avviso di chi scrive, alcuni profili critici.
Alcune considerazioni preliminari consentono di restringere la portata del tema ermeneutico. Nella sentenza si fa un riferimento generico alla “vittima” e al “danno” del reato, ma non viene individuata la persona offesa in senso tecnico, ossia il titolare del bene giuridico protetto dalla norma.
Il problema poteva essere secondario al momento del processo di primo grado, ma è invece un tema di grande attualità dopo la modifica del reato di appropriazione indebita che è divenuto procedibile solo a querela, querela che può essere presentata dalla sola persona offesa dal reato e non da chiunque abbia patito un danno. Ebbene, il Tribunale individua nella violazione del vincolo di destinazione il fulcro della condotta illecita: la persona offesa coinciderebbe pertanto, necessariamente, con colui il quale tale vincolo abbia impresso, ossia il disponente.
Ed allora, i beneficiari (che potrebbero anche non essere individuati nell’atto costitutivo del trust) restano privi della facoltà di chiedere la punizione per l’illecito da cui hanno avuto un danno, mentre una maggior tutela viene riconosciuta a chi, in definitiva, ha un minor interesse sui beni, essendosene spogliato. Già questo primo aspetto mostra l’evidente inadeguatezza del reato di appropriazione indebita nel caso in esame.
Da un altro punto di vista l’interpretazione data dal Tribunale rischia di forzare il principio di legalità rendendo applicabile il reato di appropriazione indebita ai casi in cui oggetto del trust siano beni immobili, esclusi dalla portata applicativa dell’art. 646 c.p.: il richiamo al “patrimonio” conferito in trust pare troppo generico e, nel caso in cui, ad esempio, il trustee si adoperi per cedere i beni immobili in trust con lo scopo di appropriarsi delle somme ricavate in un secondo momento, l’estensione interpretativa della fattispecie dovrebbe arrendersi dinnanzi al testo della norma.
Anche questo aspetto non fa che confermare la inadeguatezza dell’art, 646 c.p. e la sua impossibilità di dare copertura penale ad eventuali condotte infedeli del trustee.
Il Tribunale ha inoltre equiparato la situazione di colui il quale detenga delle somme di denaro altrui alla situazione di un trustee (e quindi del gestore di un patrimonio destinato) richiamando la giurisprudenza della Suprema Corte secondo cui può essere ritenuto responsabile di appropriazione indebita colui il quale, avendo ricevuto una somma di denaro o altro bene fungibile per eseguire o in esecuzione di un impiego vincolato, se l’appropri dandogli destinazione diversa e incompatibile con quella dovuta.
Occorre tuttavia puntualizzare che il concetto di “altruità” non può prescindere da considerazioni che attengono alla disciplina giuridica – civile – sottostante: se pure l’uso dei termini tecnici viene ricostruito in senso eterogeneo a seconda dei rami del diritto in cui viene utilizzato, le discrasie debbono essere ridotte al minimo a tutela della unitarietà dell’ordinamento[2].
Si è poi ritenuto che – per la configurabilità del reato in commento – è indispensabile: “A) l’appartenenza dei beni oggetto di appropriazione ad un terzo in virtù di un titolo giuridico; B) il possesso legittimo dei suddetti beni da parte del terzo; C) la volontà di interversione del possesso, la qual cosa si verifica quando il possessore effettua e rende esplicita al proprietario del bene la propria volontà di non restituire più il bene del quale ha il possesso; D) l’ingiusto profitto”[3].
Nel caso in esame difetta il primo requisito, ossia l’appartenenza dei beni oggetto di appropriazione ad un terzo in virtù di un titolo giuridico. Invero, a prescindere dal vincolo di destinazione, per potersi parlare di segregazione patrimoniale, il disponente deve perdere del tutto la disponibilità dei beni conferiti in trust.
L’oggetto del trust, da quel momento, pur costituendo una massa distinta dal patrimonio del trustee, cade sotto il controllo di questi (cfr. art. 2 Convenzione dell’Aja) e non potrà più ritenersi di proprietà del settlor. Tanto meno i beneficiari possono ritenersi proprietari dei beni conferiti in trust (essi, infatti, sono titolari di un diritto di credito), dovendo essere questi intestati al trustee ed amministrati nell’interesse dei beneficiari. In difetto di tali presupposti il trust non potrebbe produrre il cosiddetto effetto segregativo che gli è proprio e l’istituto perderebbe di significato giuridico.
Posto che né il disponente, né i beneficiari possono ritenersi proprietari dei beni in trust, il proprietario non può dunque che essere individuato per esclusione nella persona del trustee, poiché il trust non può essere qualificato come una persona giuridica o un ente. Il gestore è dunque proprietario dei beni conferiti in trust e non è individuabile un soggetto del trust che, sui beni ivi conferiti, possa vantare un diritto maggiore. In altre parole, non c’è nessun titolo giuridico che giustifichi l’appartenenza dei beni ad un terzo oltre al trustee.
D’altra parte, il trust non è neppure riconducibile ai casi di c.d. proprietà indiretta, contemplati dalla giurisprudenza della Suprema Corte ampiamente richiamata dal Tribunale[4] poiché tale negozio destinatorio, per sua stessa natura, da una parte non può contemplare nessuna riserva di proprietà né diretta, né indiretta in favore del disponente e, dall’altra, deve prevedere che vengano tutelati gli interessi dei terzi beneficiari o che venga perseguito un determinato scopo.
Tali obblighi, dunque, costituiscono una proprietà di funzione, la quale, sebbene non sia riconducibile sic et simpliciter alla proprietà ex art.832 cc, non costituisce in alcun modo una c.d. proprietà indiretta. Questo accade perché le obbligazioni che sorgono in capo al trustee al momento della costituzione del trust, sono connaturate alla sua situazione proprietaria e ne determinano l’estensione. Anche da questo punto di vista il reato di cui all’art. 646 c.p. è fattispecie inadeguata la cui applicazione al caso in esame comporta forzature giuridiche non trascurabili.
In conclusione, se pure la tesi sostenuta dal Tribunale fonda le sue ragioni in criteri interpretativi ben argomentati, sembrano mancare adeguati strumenti di tutela penale per i traditi interessi dei beneficiari di un trust.
Note
[1]Tribunale di Vicenza, sezione penale, Sent. n. 1203, 14.11.2017.
[2] In questo senso Cass. Pen. Sez. Un. 37954/2011
[3] Cfr. Cass. Pen. sez. II n. 27829/2019
[4] Cass. Pen. Sez. Un. 1327/2004 e Cass. Pen. Sez. Un. 37954/2011