Il codice penale non include una definizione di bene culturale.
In particolare, la Legge n. 22/2022 ha introdotto un nuovo Titolo nel Codice Penale rubricato “Dei delitti contro il patrimonio culturale”, anche al fine di aderire agli obblighi internazionali recepiti dall’ordinamento italiano a seguito della ratifica (con Legge n. 6 del 2022) della Convenzione del Consiglio di Europa sulle infrazioni relative ai beni culturali.
Contestualmente sono stati abrogati numerosi reati già previsti dalla legge speciale (e, segnatamente, gli articoli 170, 173, 174, 176, 177, 178 e 179 D.lgs. 42/2004).
Tutte le nuove fattispecie previste dal codice penale ruotano attorno al bene giuridico tutelato, ossia i beni culturali: come anticipato manca tuttavia una definizione penalistica di patrimonio culturale. Nonostante gli ampi dibattiti dottrinali e giurisprudenziali sul tema, il legislatore si è dunque lasciato sfuggire l’occasione per delineare un perimetro chiaro ed oggettivo della rilevanza penale.
Come è possibile definire il bene giuridico tutelato dagli artt. 518 bis e seguenti del codice penale, ossia i beni culturali?
L’interpretazione che deve compiere il Giudice comprende un’operazione piuttosto complessa: nel momento di valutare l’applicabilità di una delle fattispecie in esame occorre prima di tutto ricercare il significato tecnico di bene culturale in altri rami del diritto, estranei al diritto penale (secondo i principi ermeneutici espressi da Cassazione, Sez. Un. Pen. n. 37954/2011).
Così, ad avviso della giurisprudenza, occorre fare riferimento ancora oggi al “Codice Urbani”. Il problema, assai grave, è che, così facendo, il legislatore non ha risolto i problemi interpretativi che da anni affliggono le stesse definizioni di bene culturale date dalla normativa di settore. In particolare l’art. 2 c. 2 D.lgs. 42/2004 definisce i beni culturali come “le cose immobili e mobili che, ai sensi degli artt. 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge, quali testimonianze aventi valore di civiltà.”
L’articolo 10, a sua volta, distingue varie categorie:
- quella dei beni culturali per legge, che non necessitano di alcun tipo di accertamento (art. 10 c. 2), quali ad esempio le raccolte di musei pubblici;
- quella dei beni culturali che – per essere tali – necessitano della apposita dichiarazione (ex art. 12), quali ad esempio, le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico;
- quella dei beni culturali appartenenti anche a privati, se sia intervenuta la dichiarazione di interesse culturale di cui all’art. 13, quali ad esempio, le cose immobili e mobili che presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante, o ancora, cose che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose
A ben vedere, anche a causa del mancato intervento del legislatore, rischiano di restare senza tutela penalistica – almeno in relazione a certe condotte come l’esportazione – tutti i beni culturali appartenenti ai privati che non siano stati oggetto della dichiarazione di bene culturale da parte della Soprintendenza ex art. 13.
Da un altro punto di vista, qualora si estenda il significato di bene culturale a valutazioni non strettamente giuridiche, vi è l’evidente rischio di sacrificare i principi di tassatività, determinatezza e tipicità della fattispecie penale, principi di rango costituzionale.
Qual è la soluzione adottata dalla giurisprudenza?
Fatte queste considerazioni non stupisce che la soluzione del problema adottata dalla giurisprudenza non sia univoca. Due sono gli approcci:
- quello “sostanzialistico” o “reale”, secondo cui la tutela penale comprende i beni dotati di “intrinseco” valore culturale e prescinde da un accertamento dello stesso ad opera delle autorità competenti;
- quello “formalistico” secondo cui – al contrario – per poter costituire oggetto materiale delle fattispecie penali in commento, un bene culturale deve essere stato dichiarato tale dalle Autorità competenti prima della condotta contemplata dalla fattispecie penale.
L’indirizzo maggioritario (confermato dal più recente, Cass. pen., Sez. II, Sent., (data ud. 27/09/2023) 10/10/2023, n. 41131) ha adottato l’approccio “sostanzialistico” destando non poche perplessità: si rimette, necessariamente, all’Autorità giudiziaria l’accertamento dell’interesse culturale del bene. Il Giudice potrà, ad esempio, disporre una perizia sull’oggetto, o richiedere le medesime valutazioni agli organi competenti della Pubblica Amministrazione.
Già nel 2005 (con sentenza n. 21400 confermata ex plurimis da Cass. Pen. n. 31183/2014) la Suprema Corte ha ritenuto di dare una definizione ampia al concetto di bene culturale, ricomprendendovi anche i beni mobili reali. Tale conclusione sarebbe giustificata dal fatto che la clausola (“altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà“) contenuta nell’art. 2 del Codice Urbani costituirebbe una formula di chiusura che ricomprenderebbe tutti i beni di valore culturale oggettivo (o reale), ma privi di dichiarazione formale.
Le conclusioni a cui giunge la Suprema Corte sono, fra le altre cose, giustificate dalla necessità di garantire alla Pubblica Amministrazione la conoscenza del trasferimento di beni di valore storico o archeologico: ci si è chiesti, sostanzialmente, come possa la Pubblica Amministrazione essere a conoscenza dell’esistenza di beni culturali in assenza di un obbligo giuridico di denunciarne il trasferimento di proprietà. E dunque, in tema di cessione di beni culturali mobili, “la verifica dell’effettiva sussistenza dell’interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico della cosa denunziata non riguarda il momento prodromico della denunzia di trasferimento: essa è demandata, infatti, dalla legge ad un momento successivo e dovrà essere effettuata dalla P.A. sulla base di indirizzi di carattere generale uniformi”.
Un indirizzo giurisprudenziale minoritario (Cass. Pen. III sez. 13980/2012), ma più attento ai principi costituzionale che presidiano la materia penale, ha ritenuto necessaria, ai fini della sussistenza dell’obbligo di denuncia di cessione (e della conseguente configurabilità del reato di cui all’art. 173 Codice Urbani), la preventiva dichiarazione di interesse culturale da parte della Soprintendenza. Tale principio è stato confermato incidentalmente con sentenza n. 47825 del 21.06.2017 (III sezione penale), con esclusione per i beni di proprietà dello Stato. Stando a questo approccio, ad esempio, un bene di valore culturale reale, ma non dichiarato, potrebbe essere liberamente commerciabile.
Nella prassi come si fa a capire se un bene culturale deve considerarsi tale o meno e se, ad esempio, si può andare incontro a sanzioni penali cedendolo?
Nella prassi, ovviamente, si consiglia particolare prudenza e – a seconda dei casi – un confronto con un perito tecnico o con gli Uffici della Soprintendenza può certamente essere opportuno, soprattutto nei casi in cui si intenda cedere un bene che potrebbe avere un valore culturale. In questi casi le autorità potrebbero – fra le altre cose – apporre un vincolo, ossia delle restrizioni alla commerciabilità previste dal Codice Urbani, che potrebbero ad esempio comportare il divieto di uscita dal territorio della Repubblica (art. 65), o la facoltà di acquisto in via di prelazione (art. 60) da parte del Ministero, o, ancora, un provvedimento ablativo del bene (se, ad esempio, ritenuto frutto di uno scavo successivo al 1909).